Etichette trasparenti, in Italia norme più stringenti che nella Ue

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(di Laura Chieregato) Anche se la Commissione Ue ha licenziato un nuovo regolamento, per adesso e fino al 2020, in Italia non cambia nulla sulle indicazioni di origine nelle etichette di pasta, riso, latte, formaggi e derivati del pomodoro.

Per sgombrare il campo da eventuali fraintendimenti, nei giorni scorsi il presidente del consiglio Paolo Gentiloni, in qualità di ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, e Carlo Calenda, ministro dello sviluppo economico, hanno firmato un decreto con cui si ribadisce che fino al 31 marzo 2020 si applicano i decreti che hanno introdotto l’obbligo di indicazione dell’origine della materia prima per alcune importati categorie di prodotti agroalimentari.

Il provvedimento si è reso necessario per evitare vuoti normativi e incertezze interpretative nell’attesa che venga applicato (la data prevista è il 1° aprile 2020) il regolamento di esecuzione in materia di etichettatura dei prodotti agroalimentari adottato dalla Commissione europea.

Nulla cambia anche circa l’indicazione in etichetta dello stabilimento di produzione. Non ci sono difetti di notifica alle autorità europee (come avrebbe osservato qualcuno) perché è stato spiegato che «il governo italiano ha tempestivamente risposto alla Commissione argomentando le ragioni della sua piena correttezza spiegando come essa rientri nel modello dell’articolo 114 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea (Tfue), in quanto finalizzata a mantenere nel nostro ordinamento una disciplina previgente per ragioni di tutela della salute pubblica». Il decreto in questione, infatti, è una norma che consente di verificare se un alimento è stato prodotto o confezionato in Italia.

Le etichette “trasparenti” sono sostenute dall’84% dei consumatori che le ritengono fondamentali per la conoscenza di certe informazioni. L’Osservatorio Ixè aveva condotto un’indagine per Citterio, evidenziando come il 95% degli italiani legga le etichette dei prodotti alimentari, anche se nel 61% queste risultano poco chiare o comprensibili. L’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione nuovo non è perché era già sancito dalla legge italiana ma era stato abrogato dopo il riordino della normativa europea in tema di etichettatura alimentare entrata da poco in vigore. Ora, dopo il chiarimento del governo,  si aggiunge a quelle obbligatoriamente previste dal regolamento europeo (denominazione, ingredienti, presenza di allergeni, quantità, scadenza, nome del responsabile delle informazioni, paese di origine, istruzioni per l’uso, titolo alcolometrico e dichiarazione nutrizionale).

In caso di inadempimento della norma italiana sull’indicazione dello stabilimento di produzione nelle etichette, sono previste sanzioni che vanno da 2 mila a 15 mila euro. Se l’operatore del settore alimentare dispone di più stabilimenti, è consentito indicare tutti gli stabilimenti purchè quello effettivo sia evidenziato mediante punzonatura o altro segno identificativo. Invece, nel caso di prodotti non destinati al consumatore finale ma alla ristorazione collettiva, o all’azienda che effettua un’altra fase di lavorazione, ci si può limitare ad indicare la sede dello stabilimento solo sui documenti commerciali di accompagnamento.

Positiva la reazione di consumatori: questo strumento di trasparenza consente sia di capire se un prodotto tipico è stato realizzato o meno nel territorio più “consono”, sia di capire se due prodotti di marchio diverso siano stati realizzati in realtà nello stesso stabilimento e quindi siano “identici”.

Un ultimo aspetto da non trascurare dal punto di vista sanitario, è che la disponibilità immediata dell’informazione della sede dello stabilimento di produzione e confezionamento consente alle autorità di ricostruire la filiera e accorciare notevolmente i tempi di indagine in caso di emergenze.

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