Andrea Camilleri, il maestro, il commissario e il cibo

Andrea Camilleri

Il maestro ci ha lasciato da appena un mese. È ora anche il momento di ricordare il contributo di Andrea Camilleri nell’esaltazione dell’identità siciliana e in particolare della sua cucina.

“[…] Come fare penitenza, aspara e dolorosa per chi, come me, a lungo ha gustato i piaceri della buona tavola e ora non può più per l’età e per ferreo diktat medico. Ho preferito continuare a patire nel ricordo di certi sapori, nella memoria di certi odori.” Così dichiarava qualche tempo fa Camilleri riguardo al suo rapporto con il cibo, rapporto che nei suoi scritti ha trovato un altro protagonista, il commissario Salvo Montalbano.

In questi scritti possiamo trovare tutto l’amore di Camilleri per i gusti e gli odori mediterranei, così semplici e comuni da renderli, però, unici e sublimi. I piatti riportati nei libri (su Montalbano e non) sono sì piatti della tradizione siciliana, ma sono presi dal ricettario della famiglia Camilleri.

Si creerebbe, così per dire un filo che lega la tradizione “siculo-camilleriana” a noi, passando attraverso il protagonista dei suoi libri. Anche perché quando leggiamo le descrizioni di questi piatti e le sensazioni che suscitano al commissario (che siano positive o negative) ci sentiamo a casa, ci sentiamo parte di una grande famiglia e immaginiamo di trovarci seduti accanto a Salvo, perché al tavolo si annulla ogni carica istituzionale.

Ma quali sono questi piatti? Nel romanzo “Il birraio di Preston”, per esempio, i protagonisti prediligono i piatti a base di carne, come il timballo di riso, carne e piselli, gli spaghetti con la carne di maiale e il capretto al forno, e al circolo cittadino se ne stanno comodamente seduti a gustare biscotti regina, spongato al limone, sorbetto al gelsomino e bevanda al gusto di mandorla e anice.

Mentre nei libri con protagonista il commissario Montalbano i protagonisti sono i piatti a base di pesce. Ma il commissario non disdegna, anzi possono essere definiti i suoi preferiti, piatti come la famosa pasta ‘ncasciata, la caponata, o un piatto di caciocavallo stagionato, passuluna e olive.

E che dire, infine, dei famosi arancini, a cui Camilleri scrive una dettagliata descrizione della ricetta, tanto da sembrare un’ode al cibo e alla sicilianità, come erano, anzi sono e saranno le sue opere?

Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si pripara un risotto, quello che chiamano alla milanìsa, (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini ‘na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s’ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell’altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!

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