Partigiani e cibo, l’altro aspetto meno conosciuto della Resistenza

partigiani e cibo

“I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni simili, d’ossa rosicchiate e nascoste sottoterra.”

Con queste parole, tratte dal romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno”, Italo Calvino descrive, con molta efficacia, quale fosse la condizione di chi prese parte alla Resistenza.

Dopo la firma dell’armistizio l’8 settembre 1943, le fonti di approvvigionamento delle formazioni partigiane furono i magazzini del regio esercito italiano oramai in rotta. L’approvvigionamento di viveri, al pari di quello di munizioni, fu uno dei problemi principali dei partigiani. Le soluzioni si trovavano nelle requisizioni più o meno forzate nei confronti dei proprietari più ricchi, nell’espropriazioni a spese dei possidenti fascisti, nell’acquisto dei viveri presso i contadini.

Molto spesso la popolazione divise spontaneamente con i partigiani ciò che aveva. Come avvenne, ad esempio, il 25 luglio 1943. Alla notizia dell’arresto di Mussolini, Alcide Cervi insieme ai suoi 7 figli decise di offrire alla popolazione contadina della zona la pastasciutta. Spinti dal desiderio di uscire dall’incubo della guerra, dalle restrizioni, e soprattutto dalla fame, la famiglia Cervi cucinò 380 chili di maccheroni conditi solo con burro e parmigiano. Tutti gli abitanti della zona, più quelli delle zone vicine e i partigiani scesi dalla montagna poterono, per almeno un giorno, sfamarsi.

Nei momenti più critici i partigiani erano costretti a mangiare solo ciò che la natura offriva: castagne, nocciole, ciliegie, more, mirtilli, patate. Il poco che avevano, a volte, veniva razionato per sfamare solo per un giorno centinaia di uomini: pane nero, una fetta di polenta, mezzo uovo sodo. Le missioni per la ricerca di cibo, soprattutto farina e riso, molto spesso finivano tragicamente; non solo non riuscivano a recuperare i viveri, ma molti uomini morivano nell’impresa.

Anche la preparazione del rancio costituiva un rischio. Si evitava di accendere spesso il fuoco per non essere visti dal nemico. Il cuoco, poi, doveva con molta maestria preparare pietanze accettabili solo con quel poco che aveva a disposizione. “Capre e patate all’esquimese”, come affermava il cuoco Mancino a Pin, il giovane protagonisa del libro di Calvino. Un altro problema consisteva nel trasportare i viveri, le marmitte e gi attrezzi da cucina, con il rischio di imbattersi in un combattimento e perderli. Allora i partigiani italiani adottarono il metodo dei colleghi francesi, cioè sotterrare viveri e attrezzi per poi recuperarli a combattimento concluso.

Le numerose testimonianza scritte, da Giorgio Bocca a Nuto Revelli, da Calvino a Beppe Fenoglio, ci fanno comprendere quanto fosse grave la mancanza di viveri. Il mangiare non era considerata solo una funzione puramente fisiologica, ma come fosse, in realtà, funzionale all’obiettivo principale: la lotta contro il nemico. Ecco perché nei romanzi l’atto del mangiare perde ogni carattere socio-antropologico e di conseguenza il cibo per i protagonisti perde ogni sapore.

Nel rapporto tra cibo e partigiani è doveroso menzionare anche il ruolo ricoperto dalle donne. Non entrarono a far parte dei partigiani come staffette o combattenti in prima linea. Ma, come l’Agnese del romanzo di Renata Viganò, divennero cuoche, massaie e lottarono per la difesa e l’approvvigionamento di viveri per i partigiani e la popolazione.

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