Lo street food, icona gastronomica del Festino dedicato alla Santuzza

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A Palermo i festeggiamenti per la festa di Santa Rosalia sono entrati nel vivo. Se per un palermitano, il Festino fa parte della propria identità culturale, per il turista diviene l’occasione in più per immergersi nella cultura gastronomica della città.

Se ogni festa ha il suo piatto tradizionale, è difficile indicare qual è quello del Festino, considerando la lista di piatti consumati per la festa. Ma quali sono questi piatti?

Iniziamo con il pani ca’ meusa, il panino con la milza. Stranamente l’origine del panino non è araba, bensì ebrea e della cucina kosher. Nei macelli kosher di Palermo, gli addetti non potevano essere pagati in denaro perché ciò era in contrasto alla religione, allora venivano ricompensati con le interiora (ad esclusione del fegato perché più caro e quindi venduto a parte). Per poter ottenere un guadagno, gli ebrei osservarono i cristiani e notarono che la maggioranza mangiava le interiora condite con formaggio e ricotta e quando cucinavano utilizzavano lo strutto (loro al contrario utilizzavano l’olio d’oliva). E così inventarono un “panino per i cristiani”: milza, polmone e scannorozzato (le cartilagini della gola) bolliti e poi soffritti nello strutto, messi in mezzo ad una focaccia morbida e condito con ricotta e formaggio. Al pani ca’ meusa è legata la questione: “schietta o maritata?” (cioè semplice o con ricotta e formaggio). Perché si dice così? Le versioni sono differenti. C’è chi ritiene che la focaccia schietta è quella condita solo con il succo di limone, mentre quella maritata è quella condita con la ricotta e il formaggio, poiché il biancore rimanda al velo nuziale. Ma c’è un’altra versione (più maliziosa) che indica la schietta quella senza milza, solo lo strutto e la ricotta, mentre la maritata con la carne.

“[…] operazione di cucina, molto appestante, che si fa sulle pubbliche strade, ove il fetore è tale da non resistervi”. Così scriveva nel 1897 Giuseppe Pitrè nel descrivere le stigghiola, il budello ovino legato attorno ad uno spiedo e cotto sulla brace. Le stigghiola erano conosciute fin dai greci, ma il nome è di origine latina, extilia sono gli intestini e extiliola è il diminutivo. Per trovare il posto dove poter togliere lo sfizio delle stigghiola, basta seguire le nuvole di fumo “appestante” e di “fetore”.

Non manca il panino con le panelle e le crocchè, la pollanca (la pannocchia di mais bollitta), la fetta di muluni “agghicciato”, il coppo di càlia e simenza (ceci e semi di zucca tostati).

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Ma, forse, il piatto più rappresentativo del Festino sono i babbaluci, le piccole lumache bollite e poi soffritte in abbondante olio e aglio. È ignoto l’origine del nome, alcuni lo fanno risalire all’arabo babush, le scarpe di donna con la punta ricurva, o dal greco boubalakion che significa bufalo, che rimanda alle corna. Venivano già apprezzate dai greci e dai romani, sono alcune reperti archeologiche fanno supporre che già allora conoscessero il metodo di preparazione, cioè lasciarle spurgare per circa tre giorni prima di cuocerle. La ricetta più casalinga per i babbaluci è con il pomodoro, cioè i babbaluci a picchi pacchiu.

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